“Lisbon Story”, film di Wim Wenders, è un classico del cinema di fine millennio, uno dei migliori esempi del famoso metacinema (il cinema che parla di se stesso), tra i meglio riusciti e tra i più deliziosi.
“Lisbon Story” narra la storia di uno sgangherato addetto del suono, Phillip Winter, che intraprende un lungo viaggio in auto dalla Germania al Portogallo; così facendo ha modo di sperimentare sulla propria pelle l’apertura delle frontiere (siamo nel 1994) per raggiungere il suo amico e collega, il regista Fritz, trasferitosi a Lisbona per girare un film sulla capitale lusitana.
Arrivando all’indirizzo indicato dalla cartolina che aveva ricevuto quando fu invitato ad andare a lavorare con lui (beati tempi senza cellulari ed email!), non trovando in casa Fritz, Philipp si piazza ugualmente nella fetida e spartana stanza che sembra essere abbandonata dal suo amico regista, e comincia ad instaurare una serie di relazioni con i vari personaggi, tutti delicati e gentilissimi, che hanno conosciuto Fritz: bambini con la passione del cinema, i Madredeus, un gruppo folk incaricato della colonna sonora del film, innamorandosi immediatamente della dolce ed eterea Teresa, la cantante del gruppo.
Un film non urlato, con pochissimi dialoghi, garbate gag da sitcom, introspettivo, delizioso e con climax finale importante.
Nel redarguire la follia di Fritz, infatti, che ha deciso di lasciare il suo progetto per intraprendere una improbabile strada alternativa, quella di girare la città con la telecamere in spalla per riprendere la realtà senza “sporcarla” con la visione di un occhio umano, Philipp parla di cinema ma anche di una certa interpretazione della vita.
Non si ricerchi, dove non c’è, una purezza e una superiorità inesistente, si ritorni alle cose semplici ma funzionali e funzionanti, ai rapporti veri e cardine di un vivere quieto ed armonioso. Un inno alla vita e una lode della missione catartica del cinema che in effetti ha una sua funzione sociale non irrilevante.
Da non dimenticare il tributo di Wenders a Federico Fellini, morto l’anno prima della realizzazione del film, grande amico e maestro del vate tedesco.
Grande interpretazione di Rudi Vogler nei panni di Philipp, attore di teatro molto legato a Wenders e con cui ha collaborato diverse volte.
Un film che senza effetti roboanti e storie chissà quanto complesse riesce comunque a tenere desta l’attenzione dello spettatore, un film purtroppo “in via di estinzione” in un panorama cinematografico ormai perso irrimediabilmente nel 3D e nella grande distribuzione quasi industriale, da filmificio.
Ecco perchè è importante riscoprire questi capolavori del recente passato, per dare, anche attraverso il cinema, una speranza di cultura a questo mondo.