Ricco cinema

 

Il film di Lanthimos nonostante qualche assurda critiche di misoginia è sicuramente un’opera femminista e potente.

La protagonista, un’ottima e disinibita Emma Stone, scevra da millenni di patriarcato e perbenismo borghese, vive il mondo e sconfigge, uno a uno, tutti gli uomini che cercano di sopraffarla.

Recitazione e fotografia da urlo e temi affrontato che originalità, il film scorre irriverente senza pause, alternando momenti ironici a citazioni colte di cinema d’essai.

Veramente efficace la figura del dandy Mark Ruffalo, uno “sciupafemmine” che piano piano viene destrutturato dalla potente azione femminista di Bella.

La crisi del cinema Hollywoodiano, spesso didascalico e bloccato in un estenuante loop stucchevole, solo grazie ad un regista europeo può raggiungere alcune vette del passato.

Povere Creature è un film consigliato e una rara perla di luce in un panorama spesso deprimente e raramente interessante.

Il Sol dell’Avvenire

 

Un film pieno di speranza e non solo nel titolo. “Il sol dell’avvenire”, ultima fatica del cineasta romano Nanni Moretti, è un’opera intensa, autobiografica e catartica.

Un regista nevrotico e in piena crisi familiare cerca di realizzare un film politico sui fatti del 56 in Ungheria nel pieno dell’arrivo a Budapest dei carri armati sovietici.

L’escamotage del meta cinema spesso funziona perché dona diverse chiavi di lettura e Moretti lo sfrutta appieno.

Nanni come sempre non ha paura di dire la sua sul mondo del cinema e sulla deriva eccessivamente votata alle piattaforme streaming senza risparmiare nemmeno botte da orbi alle pellicole grottescamente pulp e “modaiole”.

Il finale che potremmo definire, quasi paradossalmente, tarantiniano (in senso lato…) regala una dolce ed inaspettata sorpresa che rende di colpo il film di livello superiore.

Unica nota dolente è di carattere storiografico: per riuscire a dire ciò che è il significato principe e il senso di questo film Moretti avrebbe potuto utilizzare un altro episodio storico, ad esempio la Primavera di Praga, dato che la rivolta ungherese era stata condizionata troppo dai fascisti magiari che volevano far ripiombare il Paese in un periodo reazionario.

Zero un par de ciufoli

 

La serie “Strappare lungo i bordi” di Zerocalcare è una salutare boccata di aria fresca nell’odierno palinsensto Netflix e dell’ormai stantio mondo dello streaming a pagamento.

Pur restando leggero anzi leggerissimo con abbondante uso di locuzioni gergali e giovanili, Zerocalcare cerca di affrontare l’attuale spaesamento di una intera generazione da un’ottica marcatamente antagonista.

La crisi acuita dalla pandemia mondiale (memorabile uno sguardo fisso in camera in cui lo stesso protagonista afferma senza tema di smentita che il Coronavirus ha ormai modificato per sempre la percezione di incertezza sul futuro) non perdona chi come tutti noi, attanagliato dal capitalismo (più volte chiamato direttamente in causa testualmente dalla coscienza-armadillo di Zero Valerio Mastrandrea), combatte ogni giorno una lotta impari contro le forze del male del profitto e del turboliberismo.

Chi critica qualche lentezza scenica in alcune puntate non considera che, sommando il minutaggio totale del girato si arriva al totale di un film di animazione completo e che quindi, in quanto appunto film, necessita di momenti di introspezione che classicamente si rappresentano con musica di sottofondo senza dialoghi.

Ciliegina sulla torta la partecipazione come doppiatore del già citato Valerio Mastrandrea, perfetto nella parte di coscienza romanesca saggia e disillusa.

Un’ottimo colpo di reni per Netflix questa serie, in linea con il suo spirito moderno e progressista anche se è evidente la strizzata di occhio ad un target, quello delle zecche che volente o nolente resta anch’esso un mercato di riferimento.

Zerocalcare ha il merito di cercare di portare avanti le idee di progresso del mondo sposandole con un innegabile capacità di arrivare ad un pubblico ampio e soprattutto giovane ancora scevro dalle storture del mondo e quindi potenzialmente capace di recepire quali siano i giusti valori da sposare per un futuro migliore, più tollerante, inclusivo ed equo.

Vediamolo e facciamolo vedere perché anche attraverso l’arte contemporanea e gli strumenti messi a disposizione dal padrone potremmo fare qualcosa di utile per questa nostra contemporaneità allo sbando totale.

 

 

Eterna…noia

 

 

Trascinato per amicizia al cinema per vedere l’ultima “fatica” Marvel con la (vana) promessa di un nuovo inizio, ho visto, non senza pregiudizi, The Eternals della regista premio Oscar Chloé Zhao.
Il film conferma, purtroppo, tutte le mie paure aggiungendone di nuove: oltre alla usuale sovrabbondanza di infinite scene di lotta e rari, rarissimi momenti di scarne futilità, questa opera si fa non-apprezzare anche per la scarsa recitazione e una trama davvero lenta e decisamente troppo prevedibile, con una Angelina Jolie decisamente sotto tono, quasi lobotomizzata, scesa a patti con le ragioni del suo mutuo tanto da accettare una parte stranamente marginale e francamente vuota.
Non bastano al film, anche se apprezzabili, gli aggiornamenti sui diritti sociali (introduzione di supereroi gay o sordomuti); The Eternals, con riprese spesso stranamente in penombra, mai guizzante e coinvolgente (come invece lo fu ad esempio Deadpool) delude tutti, anche i tifosi e i fan più accaniti.
A tratti prolisso, verboso, fa spiccare la buona prestazione attoriale della protagonista Gemma Chan, bella ed eterea nel ruolo della subentrante leader del gruppo. Per il resto piattume e minimo sindacale come quasi sempre nelle recitazioni di gruppo eccessivamente piene di star.
Nel complesso sconsigliato anche se propedeutico.

C’era e (per fortuna) c’è ancora il Cinema

 

Quentin colpisce ancora. Musica continua dei favolosi ed irripetibili anni 60, viaggi in auto estenuanti e a tutta velocità e sigarette, sigarette e ancora sigarette come se non ci fosse (e che probabilmente non ci sarà) un domani.

C’era una volta a Hollywood è un vero capolavoro stilistico, una chicca quasi senza precedenti nell’opera del cineasta italo-americano.

Tarantino non spiega nulla della vicenda che lambisce, il caso Sharon Tate – Charles Manson.

Per chi la conosce buon per lui, agli altri non resta che googolare durante o dopo la visione del film. (Vero è che per i suoi connazionali il caso dell’omicidio della giovane moglie del regista polacco Roman Polanski è famoso come il delitto di Cogne in Italia ma è una storia molto remota nel tempo).

Con due dei suoi attori preferiti che recitano alla perfezione, un sempre più convincente Di Caprio in una interpretazione quasi autobiografica e il bullo dallo sguardo d’acciaio Brad Pitt una serie di comprimari di prim’ordine fra i quali spicca la giovanissima Julia Butters nei panni di una enfant prodige del cinema americano.

Un cinema non per tutti, questo dobbiamo ammetterlo, per puri cinefile tra mille citazioni e omaggi anche al cinema italiano, eterna passione tarantiniana. Un limite? Forse ma Quentin Tarantino ormai può permettersi di tutto, perfino stravolgere la realtà e restare fedele a se stesso, al suo cinema onirico e appassionante senza tralasciare mai il suo marchio di fabbrica, il pulp genere da lui brevettato e mal imitato da altri registi.

Un passaggio storico che non può mancare nella bacheca di chi, come noi, ama quasi in maniera metafisica la settima arte.

 

Joker

 

Non tanto la prova attoriale, superba, non solo le tematiche sociali, centrali nella storia come il tema della pazzia, ma la precisa regia e il sapiente utilizzo di fotografia e colonna sonora fanno di Joker un capolavoro moderno e sensazionale.

Joker è un film poetico e profondo che ha il merito di analizzare la società americana e mondiale dopo il ciclone sovranista che la sta tormentando. Non un elogio della violenza e della criminalità come stoltamente alcuni media statunitensi hanno provato a dire per depotenziare il forte messaggio sovversivo della pellicola, ma una presa di coscienza collettiva e collettivizzante di uno stato di cose.

Il mondo così com’è non va: i poveri, senza guida, senza ideali, senza soldi, sprofondano sempre più mentre i ricchi lo sono sempre di più, noncuranti della miseria che li circonda.

In un contesto del genere anche la malattia mentale può diventare violenta se non curata, se l’individuo resta solo con i suoi fantasmi. Inevitabile è la vendetta, terribile, abominevole, ma “necessaria” per arrivare alla catarsi.

Il Joker di Todd Phillips non è un gangster, non vuole guadagnare denaro, non vuole “la sua faccia sulle banconote” come dice il sempre meraviglioso Nicholson nella meritevole opera di Tim Burton.

E’ un reietto che suo malgrado diventa leader, un rifiuto di una società incapace di aiutare i suoi cittadini. La ribellione, inevitabile, ha come unica risposta la repressione e la propaganda, appoggiata dalla maggioranza silenziosa che avrebbe, invece, tutte le ragioni per parteggiare per i rivoluzionari.

Se un film hollywoodiano è capace di fare ciò, seppur in animi sensibili e predisposti, allora il cinema diventa arte sublime, metafora di vita, spunto politico addirittura.

In tempi bui come quelli attuali, tale messaggio, proveniente dalla patria del denaro, non può farci restare indifferenti.

 

 

L’altra isola

 

per browser desk cms foto da ufficio stampa MAGLIARO

Che bel film “l’isola dei cani”! Forse non proprio per bambini ma godibile anche per loro. Una visionaria metafora dei nostri giorni così confusi e soggetti ai populismi. La caccia al diverso, in questo caso i cani, la manipolazione perpetrata dal potere, uno sparuto gruppuscolo di tenaci oppositori dello status quo. Sembra la vita di oggi e vieppiù quella che ci attende. L’happy ending, scontato quanto giusto, seppur abbastanza sbrigativo, non rovina questa piccola perla in stop motion. I cani, reietti e confinati nell’isola della spazzatura, non perdono, nonostante tutto, la loro civiltà, molto più umana dei loro fragili ex padroni. Geniale la trovata della doppia parlata degli attori in campo: in giapponese (sottotitolato o tradotto) degli umani, comprensibile al pubblico quella dei cani, i veri protagonisti.
Seppur a tratti un po’ troppo antropomorfi, sono loro che ci danno una lezione di vita da non dimenticare. Wes Anderson coglie ancora nel senso con un film piccolo ma potente film che non lascia nulla al caso, con una strizzatina d’occhio all’humor, senza esagerare e senza perdere di vista la sua funzione pedagogica.

 

 

 

 

L’Uomo Uccello vola sopra le ipocrisie

birdman

 

 

Birdman, non il solito prodotto made in States (non a caso girato da un regista messicano) anzi quasi (scherzosamente) nemico giurato dello star system hollywoodiano, colpisce positivamente per molte ragioni: l’insolito tema di meta cinema (o forse di meta teatro), la regia quasi claustrofobica incentrata sulla visuale degli attori, le recitazioni volutamente sopra le righe di alcuni dei più originali attori americani.

Funziona quasi tutto in quest’opera di Inarritu, che già aveva positivamente impressionato con i suoi film radical Babel e 21 Grammi. Un tema originale usato quasi esclusivamente dai registi europei, ampio spazio ai dialoghi introspettivi e filosofeggianti (alcuni per la verità evitabili), e un Edward Norton che si conferma istrionico e a suo agio con le parti da eccentrico, coadiuvato da una promettente Emma Stone e dalla sempre meravigliosa ed eterea Noami Watts, film in cui Michael Keaton dimostra una grande vena di autocritica e di accettare la sfida di interpretare un attore divenuto famoso per un eroe dei fumetti che cerca di rilanciarsi artisticamente mettendo in scena una pièce teatrale di difficile interpretazione.

Il film piace perchè critica senza mezzi termini i social network, ormai dominanti e determinanti nelle scelte e nelle vite di tutti noi, e la cinematografia ormai incentrata solamente sul blockbuster  e nel 3D, e solo per questo vale il prezzo del biglietto; ma c’è anche molto altro in questo film.

Keaton sente nella mente la voce di Birdman, alter ego che gli ha fatto guadagnare miliardi al box office, che lo spinge a restare ciò che era, impersonificando l’eterna lotta di ogni attore fra l’arte e il conto in banca, arrivando ad immaginare superpoteri, che casualmente svaniscono alla presenza di altre persone.

Nel suo tentativo di catarsi si scontra con la critica pronta a stroncarlo a priori, con un giovane attore impegnato ma pronto a tutto per poter emergere, con la figlia ex tossica a cui ha sempre negato la sua presenza e con il suo cuore diviso fra la giovane coprotagonista, con tendenze lesbo, del suo adattamento teatrale e la sua ex moglie, tradita e vituperata ma sempre pronta ad accorrere al suo capezzale.

Bel cinema, ben interpretato, con ritmo e passione, mai scontato e pienamente fruibile solo da veri intenditori.

Come dire, a volte anche agli Oscar sanno scegliere bene.

Una Storia straordinariamente semplice

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“Lisbon Story”, film di Wim Wenders, è un classico del cinema di fine millennio, uno dei migliori esempi del famoso metacinema (il cinema che parla di se stesso), tra i meglio riusciti e tra i più deliziosi.

“Lisbon Story” narra la storia di uno sgangherato addetto del suono, Phillip Winter, che intraprende un lungo viaggio in auto dalla Germania al Portogallo; così facendo ha modo di sperimentare sulla propria pelle l’apertura delle frontiere (siamo nel 1994) per raggiungere il suo amico e collega, il regista Fritz, trasferitosi a Lisbona per girare un film sulla capitale lusitana.

Arrivando all’indirizzo indicato dalla cartolina che aveva ricevuto quando fu invitato ad andare a lavorare con lui (beati tempi senza cellulari ed email!), non trovando in casa Fritz, Philipp si piazza ugualmente nella fetida e spartana stanza che sembra essere abbandonata dal suo amico regista, e comincia ad instaurare una serie di relazioni con i vari personaggi, tutti delicati e gentilissimi, che hanno conosciuto Fritz: bambini con la passione del cinema, i Madredeus, un gruppo folk incaricato della colonna sonora del film, innamorandosi immediatamente della dolce ed eterea Teresa, la cantante del gruppo.

Un film non urlato, con pochissimi dialoghi, garbate gag da sitcom, introspettivo, delizioso e con climax finale importante.

Nel redarguire la follia di Fritz, infatti, che ha deciso di lasciare il suo progetto per intraprendere una improbabile strada alternativa, quella di girare la città con la telecamere in spalla per riprendere la realtà senza “sporcarla” con la visione di un occhio umano, Philipp parla di cinema ma anche di una certa interpretazione della vita.

Non si ricerchi, dove non c’è, una purezza e una superiorità inesistente, si ritorni alle cose semplici ma funzionali e funzionanti, ai rapporti veri e cardine di un vivere quieto ed armonioso. Un inno alla vita e una lode della missione catartica del cinema che in effetti ha una sua funzione sociale non irrilevante.

Da non dimenticare il tributo di Wenders a Federico Fellini, morto l’anno prima della realizzazione del film, grande amico e maestro del vate tedesco.

Grande interpretazione di Rudi Vogler nei panni di Philipp, attore di teatro molto legato a Wenders e con cui ha collaborato diverse volte.

Un film che senza effetti roboanti e storie chissà quanto complesse riesce comunque a tenere desta l’attenzione dello spettatore, un film purtroppo “in via di estinzione” in un panorama cinematografico ormai perso irrimediabilmente nel 3D e nella grande distribuzione quasi industriale, da filmificio.

Ecco perchè è importante riscoprire questi capolavori del recente passato, per dare, anche attraverso il cinema, una speranza di cultura a questo mondo.

L’amico di Famiglia

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Molto prima della “Grande Bellezza”, il regista napoletano Paolo Sorrentino ci ha donato un grande film sulla psiche umana: “L’amico di famiglia”.

In una non ben definita zona d’Italia vive un uomo, “zitello”, brutto, antipatico, grottescamente tirchio, con a carico una madre grassa ed immobilizzata a letto.

Una persona che sarebbe reietta in qualsiasi contesto ma non in questo caso: Geremia è un rinomato strozzino con un grande capitale alle spalle ed un vizietto nemmeno tanto nascosto.

Tale e tanta la sua sfrontatezza che si sente libero di entrare nelle decisioni delle famiglie a cui presta il denaro, sentendosi di diritto un amico di famiglia, l’unico modo che ha per essere ascoltato con reverenza e rispetto.

Il gioco dura, e per tanto tempo, fino all’arrivo dell’amore, che evidentemente anche un animale come lui può provare, per una giovane e spregiudicata ragazza bella ed eterea che, dopo il disprezzo iniziale, userà le armi della seduzione femminile per turlupinarlo.

Al di là della trama, ben sviluppata ad avvincente per quasi tutto il tempo, quello che convince del film del futuro premio Oscar partenopeo sono i dialoghi, serrati e sussurrati che presuppongono una grande conoscenza della vita e del suo caotico svolgimento.

Uno su tutti: Laura Chiatti, la femme fatale che imbriglierà Geremia, rimprovera al padre di voler spendere troppo per il suo matrimonio con un uomo di cui nemmeno è molto innamorata, il padre risponde che per troppo tempo ha dovuto sopportare umiliazioni per provvedere al suo sostentamento, cose di cui lei nemmeno è a conoscenza e che per una volta nella vita vuole “apparire”. Quanta conoscenza della vita, dei pensieri reconditi della piccola-media borghesia, addirittura delle migliaia delle cose pensate ma mai pronunciate da tutti i padri delle scorse generazioni!

Il finale un pò troppo rapido e anche un filino non credibile non rovinano un autentico capolavoro del nostro cinema contemporaneo, con un Giacomo Rizzo, nella parte di Geremia, sugli scudi, cattivo e fragile allo stesso tempo.

Un prodotto che fa bene al cinema italico troppo spesso imbrigliato dalle commediole stile americano con belloni di turno scarsamente dotati di talento artistico che ormai anche da noi stanno prendendo troppo piede.